Psicoterapia dell’età adulta
Paura, rabbia, tristezza e vergogna sono emozioni normali e utili alla nostra sopravvivenza ma quando esse diventano eccessive, sproporzionate e durature a tal punto da interferire con le normali attività quotidiane e le relazioni, diventano un problema.
In età adulta la persona possiede una personalità e un carattere ben strutturati frutto di anni di interazione tra fattori biologici, psicologici e sociali.
Il bambino inizia già delle prime interazioni con i suoi caregiver a crearsi dei modelli di pensiero che si andranno poi a definire nel corso degli anni e a consolidarsi. In particolare, la persona fin dai primi anni di vita inizia a strutturare dei modelli relazionali che prevedono un’immagine di sé e dell’altro nella relazione che guideranno le sue interpretazioni e i suoi comportamenti sociali. Questi modelli di pensiero prendono il nome di schemi cognitivi e rappresentano una sorta di “lenti” attraverso le quali guardiamo e interpretiamo ciò che accade intorno a noi. Tali schemi portano ognuno di noi ad esperire gli eventi in un modo piuttosto che in un altro e di conseguenza a provare determinate emozioni e a mettere in atto alcuni comportamenti. In alcuni casi questi schemi diventano eccessivamente rigidi così che anche la gamma di emozioni provate e i conseguenti comportamenti tenderanno a manifestarsi in modo inopportuno e a provocare sofferenza.
Una delle prime domande che pongo ai miei pazienti è perché si sono rivolti ad uno specialista proprio in quel momento, ovvero, perché hanno sentito l’esigenza di chiedere aiuto proprio ora. Spesso accade che per anni i nostri schemi cognitivi funzionano bene, ovvero ci risultano utili e “funzionali” ad affrontare le situazioni. Proprio per questo motivo si consolidano e ci portano ad utilizzarli sempre più spesso, facendoci erroneamente pensare che quello sia l’unico modo di “vedere” quell’evento. Poi, a un certo momento (spesso individuabile nel momento in cui il paziente chiede aiuto), la strategia che abbiamo sempre usato non funziona più, e ci si sente inermi. Quando questo momento arriva in età adulta spesso provoca più disappunto rispetto a quando accade in età evolutiva in cui si è ancora in una fase di esplorazione dei possibili “schemi di pensiero” e in un certo senso ci si è meno “affezionati”.
Albert Ellis (2006), pioniere della Psicoterapia cognitiva(link CBT), ha evidenziato come la tendenza ad attaccarsi alle idee di come pensiamo che le cose dovrebbero essere, spesso si manifesta sotto forma di pensieri irrazionali caratterizzati da angoscia e delusione. Egli ha inoltre osservato, come la maggior parte di tali pensieri siano espressi dal verbo “dovere” riferito a come dovrebbero andare le cose, come si dovrebbero fare e così via.
Festinger (1957), mette in luce come gli esseri umani provino angoscia quando si trovano di fronte a osservazioni su loro stessi e sul mondo che non sono coerenti con le loro convinzioni, ad esempio quando osserviamo noi stessi comportarci in modi che sono in conflitto con i nostri valori (Tirch, Silberstein, e Kolts, 2016). Questa modalità irrazionale di pensiero prende il nome di “doverizzazione”. In quest’ottica possiamo vedere i sintomi come manifestazione di questi schemi cognitivi eccessivamente rigidi e sebbene i sintomi per cui il paziente viene in psicoterapia siano vissuti per lo più in modo egodistonico, spesso egli stesso fa fatica a rinunciare ai suoi vantaggi secondari. Ti suona strana questa frase? Forse starai pensando: “Ma che assurdità! A chi piace essere malato?” Eppure se pensiamo a un bambino che ha sintomi influenzali, accade spesso che non li disdegna in quanto gli permettono di ricevere più attenzioni, di rimanere a casa da scuola, e magari di veder soddisfatto qualche piccolo vizio. Allo stesso modo essere portatori di sofferenza psicologica potrebbe portare i nostri cari a prendersi maggiormente cura di noi, a giustificarci maggiormente, potrebbe consentirci di ottenere aiuti senza la difficoltà di chiederli. In questo senso si parla di funzione del sintomo e il lavoro di psicoterapia si basa sulla loro individuazione e la sostituzione di essi con altre strategie più flessibili, durature e che abbiano meno “effetti collaterali”.
Ad esempio uno schema cognitivo di tipo ansioso può portare la persona ad affrontare gli eventi anticipando sempre l’ipotesi peggiore. Pensando a tale ipotesi la persona dirigerà l’attenzione sugli aspetti negativi dell’evento e, attraverso l’attenzione selettiva, verranno esclusi dalla consapevolezza gli aspetti del fenomeno che contrastano tale ipotesi. Questo porterà la persona a pensare: “avevo ragione, faccio bene ad essere sempre negativo”. Una sorta di profezia che si auto avvera. Se stai pensando (come ero solita fare io stessa) “che problema c’è a pensare sempre negativo, se questa strategia mi fa trovare pronta alla situazione?” prova a pensare a qual è il costo (ovvero, gli “effetti collaterali”) di affrontare gli eventi con questa modalità: nel caso (poco probabile) in cui l’evento peggiore si manifesti, oltre a provare la sofferenza quando si manifesterà (se si manifesterà), dovrai subire anche tutta la sofferenza precedente all’evento stesso (che in questo caso si potrebbe tradurre in eccessiva ansia), portandoti ad esaurire energie utili al fronteggiamento dell’evento stesso. Mettiamo invece il caso che l’evento negativo non accada.. a cosa ti è servito passare quelle giornatacce a pensare alla sua evenienza? Lascio a te la riflessione sui costi-benefici di questa strategia che prende il nome di “catastrofizzazione” e che costituisce solo uno dei tanti modi disfunzionali di organizzare la nostra esperienza, che possono portare a sviluppare sintomi e disturbi psicologici e somatici. Sei ancora convinto che questa strategia ti aiuti ad essere più pronto? Se la tua risposta è si, è normale: come ci hai messo anni a strutturare quel modo di pensare, ci vorrà anche del tempo a “modificarlo” (non altrettanto, tranquillo!)