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Infanzia, adolescenza e genitorialità

La comprensione delle problematiche psicologiche in età evolutiva richiede alcune premesse indispensabili che consentono di evidenziarne le differenze rispetto l’età adulta. Innanzitutto ogni qual volta viene in trattamento un minore, la sua presa in carico implica, più o meno indirettamente, anche quella del suo nucleo familiare in quanto il soggetto in età evolutiva che per definizione non ha ancora raggiunto una sua piena autonomia, è ancora fortemente influenzato e dipendente da tale sistema. Occorre pertanto coinvolgere la famiglia affinché contribuisca a dare continuità alle nuove acquisizioni e ai risultati per generalizzarli oltre il contesto specifico della stanza di psicoterapia. 

Inoltre va considerato che il bambino e l’adolescente sono soggetti in continua trasformazione e le manifestazioni di tali cambiamenti se non contestualizzati, potrebbero apparire come sintomi di qualcosa che non va e destare preoccupazione nei caregiver. 

Anche in quest’ottica è fondamentale coinvolgere i genitori per aiutarli a riconoscere quali segnali fanno parte della normale crescita e quali invece indicano la possibile presenza di qualche problematica o disturbo.

 Infatti alcuni comportamenti dei bambini o dei ragazzi, anche se problematici, possono essere semplicemente una manifestazione tipica di una certa fase evolutiva e quindi transitori.

Caratteristiche principali della CBT in età evolutiva: analogie e differenze con l’età adulta

Sotto il termine CBT è compreso un numeroso gruppo di interventi utilizzati nell’ambito della salute mentale in età evolutiva, tra cui i metodi psicoeducativi come l’Educazione Razionale Emotiva, le tecniche di rilassamento, il training alle competenze sociali, ecc. Molti di questi metodi sono applicati anche in età adulta e vengono modificati ad hoc per poter essere applicati con bambini e adolescenti.

In che misura la CBT in età evolutiva può essere considerata o meno un adattamento della CBT in età adulta? 

Molti studiosi concordano nell’inquadrare la CBT in età evolutiva alla luce delle problematiche evolutive fondamentali di cui deve tener conto. 

Adottare una prospettiva evolutiva (Lambruschi, 2004) implica infatti una serie accorgimenti specifici, ad esempio: 

  • L’attenzione non dovrebbe focalizzarsi sui sintomi quanto sul corso evolutivo dell’individuo e su come questo sia collegato al disturbo;
  • Identificare gli elementi cognitivi che, nella fase evolutiva in cui si trova il bambino, potrebbero influenzare la risposta al trattamento o come il trattamento andrebbe condotto;
  • Collocare il bambino all’interno del suo contesto socio-familiare, che inevitabilmente influenza le sue emozioni, i suoi pensieri e i suoi comportamenti;
  • Alla luce della Teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969), è necessario porre attenzione al modo in cui il bambino elabora cognitivamente le esperienze e come queste nel tempo vadano a costituire i suoi Modelli Operativi Interni (MOI);
  • Considerare il comportamento normale e anormale su un continuum, in quanto un comportamento può essere normale per una determinata fase evolutiva e non per un’altra (Graham, 2008).

Queste sono le caratteristiche peculiari di una CBT in una prospettiva evolutiva. 

Ora andremo invece a vedere quali sono gli aspetti che accomunano la CBT in età evolutiva con quella per gli adulti

L’assunto principale della CBT è che il comportamento viene regolato dalla valutazione cognitiva degli stimoli, piuttosto che dagli stimoli in quanto tali. Per stimoli si intendono eventi esterni o interni (stati mentali). Le valutazioni possono essere verbali o sensomotorie e il comportamento include sia azioni motorie che risposte affettive. Il principio su cui si basano gli interventi della CBT, è che le valutazioni hanno un enorme peso nella regolazione delle emozioni e del comportamento. Sarebbero quindi le valutazioni (o giudizi) disadattavi che porterebbero allo sviluppo di problematiche psicologiche. Esistono varie tipologie di giudizi disadattavi come: i pensieri negativi automatici, le distorsioni cognitive, gli atteggiamenti disfunzionali, gli assunti cognitivi fondamentali e le strategie di compensazione. Numerosi studi hanno dimostrato che la maggior parte di questi processi cognitivi, considerati alla base dei disturbi clinici dalla CBT in età adulta, sono riscontrabili anche nei bambini e negli adolescenti. Alla luce di ciò, per la modificazione di questi processi, possono essere impiegate le medesime tecniche con i giovani pazienti, sebbene con i dovuti accorgimenti.  La CBT è applicabile a molteplici disturbi come la depressione, i disturbi d’ansia, il disturbo ossessivo compulsivo, la bulimia, l’affaticamento cronico e la schizofrenia. Il trattamento si basa sull’identificazione dei pensieri negativi sottostanti al disturbo e delle situazioni critiche che li attivano e il cambiamento a cui aspira prevede la presa in considerazione di alternative più funzionali a questi pensieri, individuabili sperimentalmente mettendole alla prova una ad una (Graham, 2008). La teoria dell’attaccamento di John Bowlby (1969) che costituisce la principale matrice concettuale di riferimento per il trattamento cognitivo comportamentale dei disturbi in età evolutiva.

Alcune false convinzioni sulla CBT in età evolutiva

Esistono alcuni pregiudizi che riguardano la CBT applicata all’età evolutiva. Ne vedremo uno alla volta e ne contesteremo la validità.

  • La CBT praticata con i giovani è semplicemente un’estensione verso il basso della CBT applicata agli adulti.

La CBT viene praticata solitamente con i bambini dai 6 anni in su e tiene conto delle problematiche e delle risorse specifiche che caratterizzano ogni fase di sviluppo; pertanto sarebbe sbagliato considerarne l’applicazione come una semplice estensione. 

  • La CBT (in particolare la REBT) e la ERE (Educazione Razionale Emotiva) si concentrano troppo sull’insight intellettuale.

LA REBT ha sempre promosso l’idea che le credenze, siano esse razionali o irrazionali, non esistono mai da sole in un vuoto cognitivo-filosofico, ma che sono, invece, intimamente connesse alle emozioni e ai comportamenti. Di conseguenza, quando si mettono in discussione tali credenze, viene anche sempre sottolineato il loro impatto sulle emozioni e sui comportamenti. Inoltre, come vedremo nel paragrafo sull’intervento terapeutico, la REBT ha sempre impiegato con i bambini e gli adolescenti non solo le tecniche cognitive, ma anche quelle emotive e comportamentali.

  • Non c’è alcuna ricerca a sostegno dell’efficacia della REBT applicata all’età evolutiva.

Esiste un numero sufficiente di studi che attestano l’effetto positivo della REBT in età evolutiva, tale per cui è possibile confutare questa critica. Ad esempio, Hajzler e Bernard nel 1991 hanno esaminato l’efficacia della REBT in 21 studi e hanno potuto riscontrare che gli effetti della REBT e della ERE sono significativamente positivi in quanto riducono il pensiero irrazionale, migliorano il comportamento e riducono l’ansia. Anche un’altra revisione meta-analitica condotta su 256 studi sugli outcome della REBT (Di Giuseppe et al., 1998) ha indicato che la maggior parte degli studi supportano l’efficacia di REBT in età evolutiva (Bernard, 2008).  

La relazione terapeutica con il bambino e l’adolescente

Il rapporto con il paziente bambino

Al contrario di quanto accade nel caso della terapia con gli adulti, per quanto riguarda l’età evolutiva, vi è comune accordo su come sia fondamentale costruire un buon rapporto con il giovane paziente e la CBT non fa eccezione. L’instaurarsi di una buona alleanza terapeutica in età evolutiva non è semplice: basti pensare al fatto che nella maggior parte dei casi i pazienti più piccoli non vengono di loro spontanea iniziativa. Per di più essi sono meno abituati a parlare delle proprie emozioni rispetto agli adulti o ai bambini più grandi ed è probabile che abbiano dei pregiudizi nei confronti della figura dello psicoterapeuta, così che è possibile che si sentano ansiosi di fronte al primo incontro con lui; pertanto, è innanzitutto necessario chiarire ogni tipo di fraintendimento e tranquillizzare il bambino su quale sia il ruolo di del terapeuta. Affinché egli possa riferirci i suoi pensieri, desideri, fantasie e sentimenti è necessario che egli sia sufficientemente introspettivo, nonché in grado di comunicarceli.  Poiché nei giovani pazienti queste abilità risultano spesso ancora poco sviluppate, spesso è necessario iniziare la terapia con un percorso di “alfabetizzazione emotiva”(link con educazione razionale emotiva) (Di Pietro, 1992) e che il terapeuta si mostri in generale empatico e non giudicante. E’ bene ricordare che, sebbene la costruzione del rapporto non sia la terapia, esso è certamente un utile strumento per avviare una terapia efficace soprattutto quando il paziente è molto giovane. Come dice il detto: “Chi ben comincia è già a metà dell’opera!”

Alcune indicazioni generali possono essere utili per costruire una buona alleanza terapeutica con pazienti in età evolutiva (Di Pietro e Bassi, 2013):

  • Cercare di capire se il bambino prova ansia ed eventualmente quale ne sia l’origine;
  • Con i bambini piccoli è bene evitare di posizionarsi dietro la scrivania (se non per la somministrazione dei test); è preferibile piuttosto sedersi entrambi su sedie, magari utilizzando un tavolino adeguato all’altezza del bambino;
  • Evitare di fissare troppo intensamente il bambino perché questo potrebbe creargli ansia. Il contatto oculare è importante, ma con i bambini piccoli non bisogna abusarne;
  • Procedere con cautela nel porre domande al bambino ed evitare un ritmo troppo calzante;
  • Astenersi almeno inizialmente dall’esprimere qualsiasi giudizio sul comportamento del bambino, per evitare che quest’ultimo possa percepire il ruolo del terapeuta come un’estensione dell’autorità genitoriale;
  • Evitare di usare un tono di voce da bambino piccolo poiché i bambini si rendono facilmente conto quando un atteggiamento non è spontaneo;
  • Nella fase iniziale parlare con il bambino dei suoi principali interessi e spostarsi gradualmente, solo in un secondo momento, su temi più personali e delicati;
  • Poiché i bambini non sono abituati a stare seduti a lungo a parlare con un adulto, può essere utile tenerlo impegnato a fare qualcosa mentre gli si parla. Gli si potrebbe dare ad esempio la possibilità di disegnare o di giocare con i lego;
  • È importante mostrarsi sempre empatici con il bambino anche quando le sue preoccupazioni dovessero apparirci banali. Bisogna considerare le cose e le situazioni dal suo punto di vista;
  • Evitare di interagire con il bambino alla stregua di un genitore o di un insegnante. Ovvero, aiutare il bambino a considerare le conseguenze di certi suoi comportamenti senza giudicarlo o dargli consigli;
  • Cercare di essere il più possibile flessibili e creativi;
  • Essere il più possibile onesti con il bambino riguardo a ciò che sappiamo di lui. Ad esempio, se le insegnanti o i genitori o qualunque altra figura ci dovessero fornire informazioni su un comportamento del bambino durante il colloquio con il paziente, non dobbiamo far finta di essere ignari;
  • Trasmettere partecipazione e genuinità, in quanto il bambino e il ragazzo reagiranno meglio e appariremo ai loro occhi come persone “normali” e pertanto “fallibili”;
  • Rassicurare il bambino riguardo alla riservatezza di ciò che ci riferirà durante gli incontri;
  • Utilizzare l’auto-apertura (self disclosure), in quanto i bambini sono molto curiosi delle vicende degli adulti;
  • Con bambini che presentano problemi di controllo della rabbia è necessario fargli percepire che siamo dalla loro parte e non da quella dei genitori  o dei loro insegnanti (Di Pietro, 2015b).

Il rapporto con il paziente adolescente

Altre problematiche nel rapporto paziente-terapeuta, riguardano nello specifico i casi in cui il paziente è un adolescente. Quando infatti si lavora con loro, spesso ci si imbatte in un atteggiamento ambivalente nei confronti della psicoterapia. Non è raro trovare adolescenti che minimizzano i propri problemi e ancor meno raro è sentire questi ragazzi sostenere che le loro difficoltà dipendono esclusivamente dagli altri e che pertanto il problema non è loro. Alla luce di ciò, capita spesso che l’adolescente sentirà il bisogno di svalutare il terapeuta e il suo lavoro. In questi casi è bene che il terapeuta gli lasci spazio per riflettere, cercando allo stesso tempo di ridurre al minimo il rischio di abbandono del trattamento. Con gli adolescenti è bene capire se siano venuti di loro spontanea volontà o controvoglia e a tal fine sarebbe opportuno avere un colloquio con l’adolescente prima di quello con i suoi genitori, dimostrandogli così di dargli priorità. Con l’adolescente è fondamentale instaurare una relazione di fiducia che gli permetta di parlare in terapia dei suoi problemi più intimi. E’ inoltre importante considerare che gli adolescenti, come anche i bambini, sono spesso restii a dedicarsi a qualcosa che non comporti risultati a breve termine.

In generale, per quanto riguarda la relazione terapeuta-adolescente, sono validi alcuni suggerimenti (Di Pietro e Bassi, 2013):

  • Spiegare loro che i problemi psicologici ed emotivi spesso derivano da abitudini che possono essere cambiate;
  • Verificare le aspettative dell’adolescente nei confronti della terapia, sottolineando che lo scopo non è l’eliminazione delle emozioni spiacevoli quanto la diminuzione della loro intensità, durata e frequenza;
  • Attenersi alla terminologia impiegata dal ragazzo;
  • Portare degli esempi di pensiero razionale;
  • Proporre adeguate attività di allenamento da far eseguire tra un incontro e l’altro.

Problematiche in età evolutiva

Le problematiche che riguardano l’età evolutiva possono essere distinte in internalizzate, quando i problemi in questione sono per lo più sviluppati e mantenuti all’interno dell’individuo, e esternalizzate, quando invece si manifestano all’esterno. I problemi internalizzanti sono difficili da rilevare, in quanto non sono evidenti come quelli esternalizzanti e questo porta spesso a trascurarli. Al contrario, i problemi esternalizzanti, come ad esempio i comportamenti aggressivi, l’iperattività e le condotte antisociali sono evidenti e quindi più semplici da rilevare. Inoltre, questo ultimo tipo di problemi è tendenzialmente percepito dagli altri come fastidioso; pertanto è nell’interesse di entrambi trovare una soluzione. I problemi internalizzanti sono tipici dei bambini che tendono a controllare e a regolare i propri stati interni cognitivi ed emotivi in modo eccessivo e inappropriato (ipercontrollo), mentre quelli esternalizzanti denotano una carenza di controllo e di autoregolazione (ipocontrollo). Nonostante ciò, i due tipi di problemi non si escludono a vicenda, infatti alcuni soggetti li presentano entrambi. La CBT si è rivelata efficace per entrambe le tipologie di problematiche, anche se alcune tecniche si prestano più per l’una e altre più per l’altra (Di Pietro e Bassi, 2013).

Problemi internalizzanti

I problemi internalizzanti in età evolutiva sono numerosi e complessi, tuttavia possono essere suddivisi in quattro categorie principali (Di Pietro e Bassi, 2013):

  • Ansia(collega con dist ansia);
  • Depressione(collega con depressione);
  • Ritiro sociale;
  • Problemi psicofisiologici.

La sovrapposizione tra disturbi internalizzanti è molto frequente; inoltre, anche i sintomi sono molto simili pertanto è abbastanza difficile separarli, tanto che si parla spesso di “problemi internalizzanti generici”. Inoltre, molti interventi efficaci con un determinato tipo di problema internalizzato sono spesso utili anche per gli altri, indipendentemente dalla eziologia specifica di quel problema. 

Lo sviluppo di questo tipo di problematiche è dovuto nella maggior parte dei casi a più fattori tra cui:

  • Biologici (temperamento, sistema endocrino, neurotrasmettitori);
  • Familiari;
  • Stress psicologico(link stress) ed eventi di vita;
  • Cognitivi (impotenza appresa, triade cognitiva depressiva, distorsioni cognitive);
  • Comportamentali (fughe ed evitamenti, scarso rinforzo sociale ecc..).

Fino agli anni Ottanta si riteneva che i problemi internalizzanti in età evolutiva fossero brevi e transitori e che si risolvessero spontaneamente con la crescita.  Ad oggi, è invece chiaro che non è così, infatti i sintomi gravi internalizzanti in età evolutiva persistono in media dai 2 ai 5 anni. Inoltre, sia i disturbi emotivi che quelli comportamentali in età evolutiva sembrano aumentare la probabilità di futuri episodi, talvolta persino più gravi del primo.  Non sono rari nemmeno i casi in cui i problemi internalizzanti emersi in età evolutiva persistano in età adulta

Alla luce di ciò, è molto importante individuarli e trattarli precocemente anche in vista del fatto che nella maggior parte dei casi essi si presentano con problematiche associate, che aggravano la situazione. 

Tra queste troviamo spesso:

  • Bassa autostima;
  • Problemi scolastici(link proble scolastiche);
  • Scarse relazioni sociali e incapacità di provare piacere nei rapporti interpersonali;
  • Somatizzazione;
  • Anassertività(link comunicazione assertiva);
  • Comportamenti particolari e bizzarri (raramente) (Di Pietro, 2015b).

Le ricerche e i trattamenti specifici per le problematiche emotive in età evolutiva non sono molti e questo è dovuto in parte al fatto che la psicoanalisi le ha attribuite per molto tempo a problematiche relative al nucleo familiare (Vecchini, 2010).

Problemi esternalizzanti

I problemi esternalizzanti possono essere definiti come quei problemi che si contraddistinguono per il fatto che il disagio del bambino (o ragazzo) si riversa verso l’esterno, provocando una situazione di disturbo nell’ambiente circostante.

 Le caratteristiche principali del soggetto con questo tipo di problematiche sono:

  • La pretesa che i bisogni personali abbiano la precedenza sui bisogni degli altri;
  • Il ricorso all’aggressività per ottenere ciò che si vuole;
  • Oppositività e trasgressione di norme sociali e legali (Di Pietro, 2015b).

Alcune categorie diagnostiche sono rappresentative di questo tipo di problematiche nell’infanzia:

  • Disturbo da deficit d’attenzione e iperattività (ADHD);
  • Disturbo oppositivo provocatorio;
  • Disturbo della condotta.

E’ però necessario sottolineare che non tutti i problemi esternalizzanti sono dei veri e propri disturbi, e che si può definirli tali solo nel caso in cui:

  • Il comportamento assume caratteristiche estreme;
  • Tali caratteristiche del comportamento tendono a cronicizzarsi;
  • Il comportamento provoca conseguenze nocive per il soggetto stesso e/o per altre persone (Di Pietro e Bassi, 2013).
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