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Psicologia buddista e CBT

La Mindfulness: punto di incontro tra Psicologia Buddhista e CBT

(Tratto da Psicologia Buddhista e terapia cognitivo comportamentale di Tirch, Silberstein, & Kolts, 2019, Edizioni FerrariSinibaldi, Milano)

La CBT non ha un corpus teorico predeterminato e stabilito in maniera immutabile (come accade in alcuni approcci terapeutici) poiché gli strumenti e le tecniche utilizzate dipendono da quanto siano risultate scientificamente efficaci. In questo senso si definisce “approccio evidence-based”, ovvero basato su evidenze scientifiche. Pertanto le teorie di riferimento e le tecniche possono essere anche molto eterogenee tra loro ma accomunate da prove di efficacia. Per questo possiamo definire la CBT un approccio “integrato”, dove il dogmatismo non trova alcuno spazio. 

Si distinguono tre “onde” all’interno della CBT: la prima coincide con il comportamentismo; la seconda con il cognitivismo mentre la terza comprende varie teorie accomunate dall’importanza che danno all’atteggiamento nei confronti della sofferenza .

Si dice che la tecnica primaria della seconda onda della CBT si concentri sul dialogo socratico, mentre la terza onda sulla mindfulness. 

Come scrive Ruggiero (2011) oggigiorno: “La terapia cognitiva sembra volgere le spalle alla maieutica di Socrate e alla sua irritante ironia per sostituirle con la saggezza sorridente del Buddha. L’india al posto della Grecia. E’ una rivoluzione culturale”.

La psicologia buddhista si riferisce sia a una tradizione di tecniche psicologiche sia ad una filosofia applicata della mente, utilizzate da almeno 2.600 anni con l’intento di aiutare le persone a liberarsi dalla sofferenza. L’insieme degli insegnamenti buddhisti era originariamente conosciuto come Dharma, ovvero “via”,”legge” o “sacro dovere”.

Il Buddhismo, nella sua essenza, non è da intendere come una religione. Il Buddhismo sottolinea come gli insegnamenti siano validi fintanto che si dimostrano attendibili ed attuali (Dalai Lama, 1991). Nel ventesimo e ventunesimo secolo, l’empirismo del Buddhismo ha cominciato a incontrarsi e a fondersi con la tradizione scientifica occidentale. 

La CBT pur condividendo con la psicologia buddhista molti concetti non li definisce allo stesso modo. Alcuni concetti buddisti possono suonare astrusi o misticheggianti ma tale linguaggio risente del fatto che i primi traduttori occidentali del Dharma erano studiosi cristiani. Si può dire invece che con il buddismo siamo di fronte al primo tentativo di affrontare il dolore attraverso una teoria della mente basata sull’osservazione della realtà (mentale) piuttosto che sulle assunzioni religiose.

Questo paragone tra CBT e buddhismo non intende veicolare un approccio new age, mistico o  poco rigoroso ma sottolineare alcuni assunti comuni sul funzionamento della mente che la cbt persegue scientificamente e che il buddhismo ha studiato con sapienza millenaria (e ultimamente anche con i metodi delle neuroscienze; cfr. Gyatso Tenzin [Dalai Lama], Daniel Goleman, 2009).

Sappiamo che il cervello umano ha più collegamenti possibili tra le sue cellule nervose rispetto al numero di stelle nel cielo, o ai granelli di sabbia su una spiaggia (Davidson, Jackson e Kalin, 2000; LeDoux, 2002). Il nostro potenziale, in quanto esseri umani è quindi eccezionale, tuttavia, in quanto umani abbiamo anche altre caratteristiche, un po’ meno incoraggianti. La quota di sofferenza autoinflitta e la capacità di rimuginare insistentemente nel passato o nel futuro più che vivere pienamente il presente ne sono degli esempi. Per queste ragioni, anche se viviamo in un’epoca di relativa prosperità, si stima che circa il 50% della popolazione soffra di un grave disturbo psicologico nel corso della propria vita (Kessler et al, 1994; Kessler, Chiu, Demler, e Walters, 2005). 

La CBT e la psicologia buddhista sono tradizioni che si sono sviluppate in ambiti culturali diversi, tuttavia condividono obiettivi comuni, tecniche comuni ed anche elementi della storia comune. Entrambe hanno lo scopo di alleviare la sofferenza attraverso una migliore comprensione della realtà. 

Mark Epstein in una sua opera riporta un episodio in cui lo psicologo William James durante una lezione ad Harward, agli inizi del Novecento scorgendo un monaco buddista nell’uditorio si interruppe e gli chiese di prendere il suo posto affermando “lei è più preparato di me a insegnare psicologia. La vostra è la psicologia che tutti studieranno di qui a un quarto di secolo” (Mark Epstein, Pensieri senza un pensatore, 1996). La sua previsione era corretta, anche se la anticipò di circa 100 anni. I metodi e i concetti della CBT associati al Buddhismo sono stati descritti come la terza onda della CBT (Herbert & Forman, 2011) e si concentrano su alcuni concetti come la consapevolezza, l’accettazione e la compassione. In realtà alcuni elementi del Buddhismo potrebbero aver influenzato la CBT fin dai suoi inizi se prendiamo in considerazione le parole di Ellis: “Se, da un lato, la Rational Behavioural Therapy (REBT) sottolinea il ruolo delle credenze rigide e dogmatiche delle persone, dall’altro ha sempre privilegiato l’uso di diversi aspetti del Buddhismo Zen come il modus vivendi” (Kwee & Ellis, 1998). L’adattamento dei metodi della psicologia buddhista alla CBT è incentrato sul concetto di Mindfulness (Didonna, 2009). Quest’ultima può essere intesa come processo, procedura, risultato, un metodo di formazione, o addirittura come totalità della filosofia buddhista. Per ovviare alla confusione determinata da questa ambiguità mi rifarò alla definizione di Mindfulness semplice ed elegante suggerita da Germer, Siegel, e Fulton (2005) che intende la Mindfulness come consapevolezza e accettazione dell’esperienza presente. 

La psicologia buddhista ci suggerisce che tutti noi siamo già completamente liberi e saggi, semplicemente non ne siamo ancora a conoscenza.

 La strada per raggiungere tale consapevolezza e il relativo benessere che ne deriverebbe consiste nel togliere sovrastrutture che ci siamo creati, non nell’aggiungerne. Sembrerebbe più semplice del previsto. Il problema è che semplicità non fa rima con facilità. Basta pensare a quanto possano essere semplici i consigli per condurre una dieta sana e quanto non siano altrettanto facili da seguire. La stessa pratica di meditazione, si basa sull’esclusione di stimoli dalla coscienza, per concentrare la nostra attenzione su ciò che desideriamo osservare o sentire. L’obiettivo anche qui è togliere non aggiungere. 

Sia il Buddha che il terapeuta sono spinti ad alleviare la sofferenza a cui hanno assistito, hanno dedicato la loro vita a questo attraverso l’applicazione della razionalità e della saggezza.

Conosci la storia di Siddharta? Ebbene suo padre ha cercato di circondarlo con l’abbondanza di lusso, distrazioni e piacere, come forse anche noi proviamo a riempire la nostra vita con oggetti e condizioni volte a proteggerci dal dolore, dalla miseria e dall’incertezza che ci circonda. E proprio come accadde a Siddharta, potremmo renderci conto che queste distrazioni sono inadeguate o insufficienti quando ci troviamo di fronte alla dura realtà della vita. Ed è spesso proprio a quel punto, in cui già si è difronte a una grande difficoltà,  che ci si rende conto del malessere che sta dietro al piacere effimero, prendendo consapevolezza che felicità e tranquillità non possono essere acquistati ma, devono essere scoperti e coltivati. 

Secondo il Dharma tutte le cose sono interconnesse e da questo punto di vista, ogni separazione percepita è un’illusione ed esiste solo nella mente di colui che percepisce. Allo stesso modo accade per alcuni costrutti psicologici come la “depressione”, l”autostima”, “gli schemi cognitivi”, “l’attaccamento”. Per misurare un concetto occorre definirlo e inevitabilmente ridurne la complessità. Utilizziamo tali costrutti perché hanno un elevato potere esplicativo e ci consentono di comunicare in modo più efficace. Siamo però talmente abituati ad utilizzare tali etichette che parliamo di tali concetti come se fossero oggetti, perdendo spesso di vista la loro vera natura indistinta e astratta. Questo è anche ciò che accade nella realtà di tutti i giorni attraverso il linguaggio: deduciamo la realtà piuttosto che osservarla, e la reifichiamo. Accade la stessa cosa anche con i pensieri: li trattiamo come se fossero eventi reali e questo meccanismo sta alla base della sofferenza reale derivante dai pensieri stessi. La natura dei concetti costituisce proprio uno dei problemi epistemologici principali alla base della psicologia, che si trova spesso a chiamare con nomi diversi gli stessi concetti, o meglio, le stesse parti di realtà. E’ proprio per questo che gli psicologi passano tanto tempo a costruire strumenti di valutazione: poiché molte delle cose di cui trattiamo non sono direttamente misurabili.  Personalmente ho apprezzato l’approccio CBT proprio per il suo tentativo di operazionalizzare il più possibile tali concetti, ovvero di renderli misurabili (e quindi maggiormente controllabili dal punto di vista scientifico) attraverso esperienze e comportamenti umani quantificabili. La psicologia buddhista suggerisce che non siamo in grado di osservare direttamente il sé ma solo le sue manifestazioni. Osserviamo il nostro pensiero e attraverso esso deduciamo la presenza di un sé. E su questo principio si basa proprio la CBT, che attraverso lo studio del modo di pensare inferisce le cause della sofferenza e vi fa fronte.

Per comprendere il metodo del Buddha occorre partire dal suo insegnamento fondamentale, ovvero le Quattro Nobili Verità che presenterò brevemente insieme ai corrispondenti concetti della CBT.

Le Quattro Nobili Verità

  1. Verità del dolore: rappresenta il primo problema che il Buddha ha cercato di risolvere, ovvero: la presenza della sofferenza. Tale sofferenza va intesa come condizione derivante dalla vita umana che è di per sé soggetta a frustrazioni, cambiamenti, effimera e quindi imperfetta. L’ironia è che più ci sembra di evitare questa realtà, più sofferenza portiamo su noi stessi. Sull’evitamento di esperienze dolorose si struttura tutta una gamma di disturbi psicologici e comportamentali come l’abuso di sostanza, la risposta ai traumi e i disturbi d’ansia (Chawa & Ostafin, 2007; Salters-Pedneault, Tull, e Roemer, 2004). 
  2. Verità dell’origine del dolore: spiega l’origine della sofferenza. Quest’ultima sarebbe direttamente proporzionale alla misura in cui non accettiamo il momento presente così com’è. In quest’ottica la sofferenza è un effetto, non una causa. Il Buddha ci insegna che possiamo provare dolore senza soffrire. Infatti sebbene la vita ci pone ogni giorno difronte a eventi più o meno dolorosi, è possibile evitare di soffrire più del dovuto in quanto la maggior parte della sofferenza non è dovuta all’evento in sé ma al modo in cui reagiamo a questa esperienza. Questo è più o meno lo stesso concetto su cui si basa lo strumento principe della CBT, ovvero l’ABC (link con schede ABC), che considera l’evento negativo come fattore scatenante ma non determinante della sofferenza, poiché essa è determinata dal pensiero che si ha sull’evento negativo.
    Buddha trasmise questo insegnamento attraverso l’immagine di un uomo, che dolorante per essere stato colpito da una freccia, si lascia catturare da un vortice di valutazioni sull’esperienza stessa e finisce per soffrire molto più del necessario. Come se fosse stato colpito non da una, ma da due frecce, la seconda delle quali scagliata da sé stesso sulla stessa ferita.
    La nostra naturale risposta evolutiva prevede l’allontanamento da quegli eventi che riteniamo avversi e lo spostamento verso ciò che è desiderabile (Ramnero & Torneke, 2008). E’ proprio su tale tendenza a perseguire alcuni risultati e ad evitarne altri che si basano le teorie comportamentali della CBT (apprendimento operante).
  3. Verità della cessazione del dolore: è rappresentata dal Nirvana, ovvero dalla liberazione dalla sofferenza e dalle distrazioni causate dal desiderio e dall’attaccamento in modo da agire liberamente. Questa libertà è quella a cui dovrebbe aspirare un terapeuta, mantenendo un costante monitoraggio su di sé e sulla propria influenza nella terapia e quella a cui i nostri pazienti possono aspirare, liberandosi dai comportamenti abituali che li intrappolano in cicli di depressione e ansia.
  4. Verità della via che porta alla cessazione del dolore: la Via di Mezzo.
    Mentre le prime tre Nobili Verità rappresentano i processi di funzionamento del Sé, quest’ultima Verità, ci offre una strategia di intervento. Tale strategia è costituita dal Nobile Ottuplice Sentiero.

Il Nobile Ottuplice Pensiero

Gli otti passi verso la libertà dalla sofferenza sono raggruppabili in tre categorie principali: la condotta adattiva, la disciplina mentale e la saggezza. 

  • La Condotta adattiva include: la retta parola, la retta azione e la retta sussistenza. Tali valori aspirano ad aiutare il paziente a raggiungere la libertà dal dominio della propria storia di apprendimento.
  • La Disciplina mentale include: il retto sforzo, la retta presenza mentale e la retta concentrazione.
  • La Saggezza è rappresentata da: la retta intenzione e la retta visione.

Vediamole più nel dettaglio.

  • La retta parola: si riferisce al mettere in atto una comunicazione chiara e sincera sia con gli altri sia in discussioni mentali con noi stessi (self-talk). Possiamo immaginare una serie di indicazioni della CBT al fine di sviluppare una retta parola, come: le competenze di efficacia interpersonale della DBT https://www.istitutobeck.com/disturbi-di-personalita/disturbo-borderline-personalita/dialectical-behavior-therapy-dbt-disturbo-borderline-personalita (Linehan, 1993°, 1993b), i principi di Gottman per una comunicazione efficace nella terapia di coppia https://psicoadvisor.com/amore-le-7-regole-doro-john-gottman-felice-vita-coppia-4764.html (1999) e il training alla comunicazione assertiva(link assertività). L’identificazione dei self-talk potenzialmente dannosi e la successiva riformulazione in termini più razionali sta alla base della terapia cognitiva di Beck. Come abbiamo visto in precedenza il linguaggio ha il forte potere di reificare ciò che viene pensato, pertanto anche il nostro benessere parte da un utilizzo funzionale del pensiero (self-talk) e da una selezione accurata della realtà tramite esso. Il self-talking indirizza infatti la nostra attenzione su specifici elementi e la ritira da altri. Solo la parte di realtà che pensiamo, diventa reale per noi. Un detto buddhista suggerisce di “Non credere a tutto ciò che pensi” poiché è il crederci che lo rende reale.
  • La retta azione: l’identificazione di essa richiede consapevolezza e flessibilità poiché consiste nell’identificazione di comportamenti adattivi e azioni sane e la loro messa in atto anche quando tali comportamenti non sono immediatamente invitanti. Sulla base di questo principio su struttura la tecnica comportamentale dell’esposizione agli eventi temuti, che si è rivelata di primaria efficacia per i disturbi d’ansia e panico. 
  • La retta sussistenza: rappresenta l’estensione della retta azione all’interno della propria carriera lavorativa, ovvero procurarsi un sostentamento adeguato con mezzi che non arrechino danni o sofferenza a sé e ad altri.
  • Il retto sforzo: l’approccio buddhista riconosce che il cambiamento significativo di vita comporta un sforzo persistente nel tempo. Nel buddismo c’è la consapevolezza che questo sforzo debba essere alimentato da una potente motivazione e questo è lo stesso presupposto per poter fare intraprendere una psicoterapia efficace.
  • La retta presenza mentale: è rappresentata dalla Mindfulness (link mindfulness), che rappresenta il passo dell’Ottuplice Sentiero maggiormente condiviso dai terapeuti cognitivo-comportamentali. La Mindfulness è intesa come consapevolezza che emerge dal riportare l’attenzione al momento presente (Kabat-Zinn, 1990). Tale consapevolezza è ciò che ci permette di distanziarci dalle influenze dei nostri modelli di comportamento e di pensiero abituali e quindi automatici. Questo distanziamento (defusione cognitiva) consente ai nostri pazienti di osservare i propri schemi, comprenderne la soggettività e la disfunzionalità e modificarli in modo tale da renderli più utili ai propri obiettivi e al proprio benessere. Alcune ricerche hanno evidenziato come la pratica costante della Mindfulness comporti un aumento della sostanza grigia cerebrale, ovvero delle aree associate all’apprendimento, alla memoria, alla regolazione delle emozioni, all’elaborazione delle informazioni autobiografiche e all’esperienza del sé (Carmody, 2009; Hozel et al., 2011).
  • La retta concentrazione: costituisce il presupposto per la retta presenza mentale (o Mindfuness), ovvero la capacità di dirigere l’attenzione intenzionalmente su uno specifico oggetto (anche mentale) per aumentarne la consapevolezza. Tale abilità attentiva viene allenata attraverso varie tecniche tra cui quelle inerenti la respirazione. Ogni distrazione può essere vista come una ripetizione automatica, e quindi priva di attenzione e consapevolezza. La respirazione è vista come atto di tornare a sé, a un punto fermo di consapevolezza da cui possiamo scegliere come trattare i nostri pensieri più angoscianti. Da questo punto fermo è possibile osservare la natura impermanente e interdipendente delle cose. I pensieri dipendono da noi. Ciò che non viene pensato non esiste nell’esperienza soggettiva e non può provocare sofferenza. E viceversa, se pensiamo a un evento negativo che non esiste, staremo male come se fosse reale. Da ciò deriva l’importanza di concentrare la nostra attenzione (e quindi i nostri pensieri) in modo funzionale. E’ proprio da questa consapevolezza che possono partire tutte le strategie CBT atte alla modificazione del pensiero e del comportamento e alla conseguente regolazione emotiva.
  • La retta intenzione è costituita dalla scelta di coltivare un obiettivo specifico. Dal punto di vista scientifico e psicologico individuare un obiettivo specifico coincide con la sua operazionalizzazione ovvero, con la descrizione di un obiettivo in termini quantificabili e osservabili. Tale “traduzione” in termini operativi utilizzata anche nella CBT, consente al paziente di avere un’unità di misura del progresso verso l’obiettivo terapeutico aumentando la motivazione verso lo stesso e al terapeuta di dirigere il trattamento tenendo conto di tali progressi.
  • La retta visione: consiste nell’avere una visione delle cose scevra dai nostri pregiudizi e illusioni, ovvero relazionarsi con il mondo in modo oggettivo e diretto.

CBT e psicologia buddhista hanno in comune l’idea che molta della nostra sofferenza sia dovuta al fatto che spesso, soprattutto difronte a eventi negativi, non accettiamo la realtà per come ci si presenta. Mi viene in mente per sottolineare questo aspetto una frase di Aristotele: “Se c’è una soluzione perché ti preoccupi? Se non c’è una soluzione perché ti preoccupi?”. La risposta è che spesso soffriamo perché viviamo nell’illusione di poter cambiare cose che non possono essere diverse da come sono, e attribuiamo carattere di permanenza e solidità a cose mutevoli e sprechiamo tempo ed energie nella speranza di farle permanere. CBT e psicologia buddhista condividono che la strada per raggiungere la felicità risieda nell’accettare ciò che dobbiamo accettare e nel cercare di modificare solo ciò che possiamo cambiare.

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