Il mito dello starbenismo. Il segreto della (in)felicità
La cultura occidentale non fa altro che proporci un modello di felicità come assenza di sofferenza o di problemi.
Le stesse favole con cui siamo cresciuti hanno una struttura che prevede: situazione iniziale, complicazione, risoluzione e lieto fine a tempo indeterminato (“e vissero per sempre felici e contenti”).
A questo modello dello “starbenismo” consegue una tendenza a patologizzare comuni esperienze di vita (come il dolore, la tristezza, la paura, la vergogna, pensieri negativi, ecc.) (Rossi, 2022). Tale tendenza, a sua volta, porta la persona ad intraprendere una lotta contro tali esperienze esperite come anormali o segni di qualcosa che non va in sé.
Nonostante la società ci metta a disposizione una gamma sempre più ampia di strategie per intraprendere questa lotta (basti pensare alle pubblicità che ci offrono specialisti per ogni problema, creme e diete smart che eliminano i segni della bassa autostima, pillole della felicità, chirurgia che “cancella” le imperfezioni, programmi tv per non pensare, realtà virtuale per proiettarti dove vorresti essere o per fuggire da dove non vorresti essere ecc..), i dati statistici ci mettono di fronte a un preoccupante aumento dell’infelicità tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la depressione “il Male del secolo”.
Il tasso di suicidio annuo a livello mondiale è pari a circa 11 persone ogni 100.000 abitanti (fonte OMS), costituendo l’1,5 % di tutte le cause di morte e la seconda causa di morte tra i giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni.
Come si evince dalle statistiche questa lotta non funziona. La capacità di evitare problemi non ci rende più felici. Basti pensare che l’essere umano è l’unica specie in grado di provare sentimenti spiacevoli anche di fronte a qualcosa di piacevole.
Spesso i pazienti arrivano in terapia non perché hanno emozioni spiacevoli ma perché sentono di non riuscire ad eliminarle. Si sentono “anormali” perché la società implicitamente ci ha insegnato che la normalità è “stare bene”.
La linea sottile tra il problem solving e la ruminazione
Le emozioni sono dei “dispositivi” che ci permettono di rispondere in modo efficace ai problemi che la vita ci pone, richiamando la nostra attenzione su di essi. Finchè i problemi sono materiali la strategia del problem solving funziona molto bene ma quando i problemi sono emotivi il problem solving tende a trasformarsi in ruminazione e a bloccarci.
La ruminazione è un processo di pensiero persistente, circolare e depressivo che si focalizza sugli stati emotivi negativi interni nel tentativo di controllarli. La ruminazione e il problem solving sono due processi basati sull’analisi della situazione. Il primo riguarda i problemi interni o emotivi; il secondo i problemi che riguardano l’ambiente esterno. Nonostante le somiglianze tra i due processi c’è una differenza fondamentale che permette di distiguerli: il problem solving risolve problemi mentre il rimuginio li crea.
Questo accade perché come dice Hayes (2016) “il sistema nervoso umano funziona come una calcolatrice in cui non è presente né il tasto meno né il tasto cancella ma solo più, uguale e moltiplica”. Accade così che nel tentativo di utilizzare “la calcolatrice della mente” come una qualsiasi altra calcolatrice invece che sottrarre problemi li aggiungiamo e li moltiplichiamo fino a sentirci bloccati da essi più di quanto lo eravamo inizialmente.
Perché continuiamo a rimuginare nonostante l’esperienza ci dica che questa lotta contro i problemi emotivi non funziona?
Il ruolo del linguaggio simbolico nella sofferenza
Questa sorta di testardaggine che ci induce a perseverare nell’errore di voler evitare il disagio interiore e la sofferenza è dovuta in parte al linguaggio, inteso come sistema simbolico.
Grazie alla Relational Frame Theory (RFT; Hayes, Barnes-Holmes e Roche, 2001) sappiamo che il linguaggio ci permette infatti di apprendere a prescindere dall’esperienza diretta grazie al meccanismo della derivazione, attraverso il quale con l’insegnamento diretto di alcune relazioni simboliche ne emergono altre senza che sia necessario un ulteriore insegnamento.
Ad esempio: so che l’arancia è un agrume. L’arancia è aspra. Ne deriva che sarò portato a pensare, per analogia, che tutti gli agrumi sono amari anche se non li ho mai assaggiati. Questo meccanismo è lo stesso che ci permette di non attraversare la strada mentre passano le macchine pur non essendo mai stati vittima di un investimento stradale ma anche lo stesso che ci può portare ad avere la fobia dell’aereo senza averne mai preso uno. Tale meccanismo è quindi fondamentale per la sopravvivenza ma allo stesso tempo ci rende più insensibili alle esperienze dirette.
Dalle derivazioni nascono delle “regole” (o convinzioni) che indirizzano il nostro comportamento e che sono resistenti ad esperienze dirette che le contraddicono.
Nasce così quell’inflessibilità che rende estremamente difficile interrompere le strategie anche se non funzionano, la cui perseveranza fa sentire inefficace la persona (piuttosto che la strategia) e la porta a mettere in discussione la propria autostima.
In conclusione, sebbene provare certe emozioni sia certamente spiacevole ma è assolutamente normale e funzionale alla sopravvivenza fisica e sociale, ciò che diventa patologico è la lotta che si intraprende per evitarle. Essendo le emozioni dispositivi per la sopravvivenza ci accompagneranno finchè saremo vivi; pertanto, ogni tentativo di evitarle sarà destinato a fallire, portando ad inutili sforzi e frustrazione. Che fare allora?
La metafora del tiro alla fune con il mostro di Hayes (Hayes et al., 1999)
Steven C. Hayes, fondatore dell’Acceptance e Commitment Therapy (ACT) ci offre una preziosa metafora sulle ripercussioni che può avere una lotta ostinata contro le nostre emozioni e i nostri pensieri e ci offre una soluzione alternativa.
“Immagina di trovarti a giocare al tiro alla fune contro uno spaventoso mostro (che può rappresentare l’ansia, la rabbia, la vergogna o altre emozioni o pensieri spiacevoli) e che tra te e lui ci sia un’enorme voragine. Se dovessi perdere verresti trascinato nella voragine e moriresti. Pensi che tirare con tutte le tue forze sia la cosa migliore. Ma più tiri e più il mostro, arrabbiato, tira dalla sua parte avvicinandoti sempre di più alla voragine. Tiri poco e vieni trascinato, tiri troppo ed è peggio. Cos’altro potresti fare? Mollare la corda e smettere di lottare”.
L’ACT si basa infatti sul presupposto che la cosa migliore da fare con le emozioni spiacevoli è smettere di lottare contro di loro nell’illusione di poterle eliminare.
Disperazione creativa
Se stai provando una sensazione di disperazione di fronte al crollo del mito dello “starbenismo” non cercare di evitarla. Tale sensazione, sebbene spiacevole, ti sta intimando di rinunciare a ciò che non funziona e a lasciare spazio ad altre strategie potenzialmente più utili per il tuo benessere. Il benessere non è dato dall’assenza di sofferenza ma è darsi da fare per rendere la propria vita ricca, piena e significativa nonostante la sofferenza. Per cui chiediti: se non fossi obbligato a lottare e potessi scegliere dove investire le mie energie… dove le orienterei? Questa domanda ti farà prendere contatto con ciò che conta veramente per te.
Non perdere più tempo in una lotta inutile ma trova la tua direzione e investi i tuoi sforzi per mantenerla nonostante la sofferenza e/o i problemi che fanno necessariamente parte della vita.
Articolo pubblicato su Vivere la Psicologia l’ 08/07/2022